La vera prova di maturità: rendere la scuola un posto migliore

di Salvatore Primiceri – Tempo di maturità per gli studenti italiani. L’esame, seppur in formula nuova causa pandemia, si svolgerà per buona pace di tutti coloro, purtroppo ancora in maggioranza, che ritengono che la bravura di uno studente e il successo nella vita da adulto si misurino a suon di esami e giudizi. 

Si è fatto un gran parlare sia sull’importanza di non privare lo studente di una così “formativa esperienza come l’esame” sia sul “riaprire le scuole il prima possibile“. Si è solo accennato, per poi farlo sparire dal dibattito, all’opportunità di rendere la scuola un posto migliore per studenti e insegnanti. Mi riferisco sia alla didattica che all’edilizia scolastica.
Avendone già parlato in diverse occasioni, anche in precedenti articoli, molti di voi conoscono la mia idea di scuola. In sintesi confido in una scuola dove lo studente non sia un numero, dove vengano valorizzate le sue personali capacità, dove le differenze individuali diventino il valore aggiunto di ognuno, dove venga insegnato a far uso della creatività senza limitazioni, dove prevalga una didattica che favorisca la comprensione e il ragionamento più che gli schemi e l’apprendimento a memoria. In un quadro di questo tipo, dove la scuola è un’esperienza condivisa e realmente un percorso di crescita nel rispetto di ogni singolo, l’esame di maturità avrebbe poco senso. Ma di abolire l’esame di maturità guai a parlarne come se questo fosse l’unico strumento per valutare il percorso di uno studente che è stato in quella scuola almeno cinque anni. In un contesto così fossilizzato, incapace di mettere in discussione i presupposti, qualsiasi ipotesi di riforma rimarrà sulla carta o sulle parole del noioso e banale dibattito che ci ha accompagnato negli ultimi mesi.
Per migliorare la scuola forse occorre ripensare al modello di società che abbiamo costruito. Ne sarebbe lieto Rousseau. La vera prova di maturità per gli studenti alla prova d’esame sarà quella di pensare fuori dagli schemi senza piegarsi alle tante resistenze che si incontreranno sul cammino della vita. A questo deve preparare la scuola. Quest’anno, però, anziché addentrarmi nuovamente nelle tematiche citate, affido la riflessione sulla scuola ad un saggio di Sebastiano Timpanaro del 1919 in cui mi sono di recente imbattuto. Leggete cosa scriveva nei suoi “Scritti Liberisti” e riflettiamo quanto queste parole siano tremendamente attuali. Ad ogni modo e comunque la pensiate, in bocca al lupo a tutti i maturandi e buon lavoro agli esaminatori.

L’IMITAZIONE DEGLI UCCELLI (saggio di Sebastiano Timpanaro estratto da “Scritti Liberisti”)

Nel 1905, quando gli studenti torinesi rumoreggiarono il professor Billia perchè nella sua prolusione aveva osato parlare di cristianesimo, Giuseppe Prezzolini scrisse nel Leonardo così: «Capirei una dimostrazione di studenti se i teatri rialzassero i prezzi, i sigari costassero di più e i posti governativi diminuissero; ma, in fatto d’idee, che c’entrano questi candidati al filisteismo? Quando hanno avuto i loro diplomi coi quali lo Stato li autorizza a squartare, strozzare, avvelenare uomini e bestie, a ingannare destramente o scioccamente, ad annerire carta bollata – cosa chiedono di più? Del vino per fingere la giovinezza che non hanno, qualche donnetta non troppo costosa per fingere l’amore che ignorano, qualche strappo ben rattoppato alle vesti per fingere la bohème che non vivono. E poi mi pare che basti. Per le idee, quando han speso cinque centesimi per un giornale politico, ne hanno in serbo per un pezzo e adatte a loro».

Queste parole del Prezzolini son vere ancora. Noi studenti siamo ancora dei pagliacci senza coltura e senza ideali, ma la colpa è tutta quanta di quel mostruoso istituto d’erudizione coercitiva che è la scuola.

La scuola addormenta, corrompe, schiaccia.

Per tutti i giovani dall’anima vulcanica, la vita scolastica è una continua tormentosa rinunzia agli ideali davanti alla quale la rinunzia che il Carducci, arriso dal suo sogno di gloria, faceva alle vergini danzanti al sol di maggio suscita l’immagine nostalgica d’una serena alba di primavera siciliana.

In certi giorni in cui siamo usciti di casa con l’anima di Enjolras e vorremmo che la scuola ci alimentasse l’incendio che ci divampa dentro, l’aula scolastica ci dà il freddo e la nausea di un cimitero in cui si traffichino, a brandelli, i cadaveri. Invece della patria, troviamo l’esilio della nostra spiritualità, la palude in cui si spengono i nostri sogni e le nostre energie; e nel professore non vediamo l’animatore, il centro della nostra vita più alta, ma il venditore di libriciattoli e di dispense, il burocratico pedante e aguzzino che secca per un anno intero litaniando nenie inutili e poi boccia e promuove. E ci dobbiamo rassegnare a essere facchini dello studio e non laboratorii di verità in azione continua come la Chiesa di Benedetto Maironi.

Non è che la scuola debba essere più facile, come ritengono gli sgomenti del surmenage, o più difficile, come quelli che credono di poter preparare i giovani a vincere le difficoltà della vita rendendo la scuola difficile come la vita. La scuola non è nè difficile nè facile: è assurda e perciò è inutile tentare di riformarla con criteri quantitativi. La riforma dev’essere radicale. Della scuola di oggi non deve rimanere più traccia. Bisogna che all’istituto di erudizione coercitiva si sostituisca un centro libero di cultura. La scuola attuale è fatta per sviluppare il superficialismo chiaccherone dei gazzettieri che parlano di libri che non hanno letto e discutono teorie che non hanno studiato. Non s’insegna nelle nostre scuole la storia della letteratura senza la letteratura sicchè si è costretti a parlare di autori che nemmeno i compilatori del libro di testo hanno letto, e non solo di autori di secondo ordine ma di geni come Leonardo, Galileo, Vico?

Ma non c’è una materia che non venga insegnata superficialmente e meccanicamente. È che si bada al possesso materiale della scienza e non allo spirito scientifico e perciò si dà l’ostracismo a tutte le idee direttive per lasciare il posto alla minutaglia donferrantesca. L’azione della nostra scuola si potrebbe paragonare a un idiota che perdesse i giorni a imparare in un enorme catalogo il numero delle sillabe delle singole parole, senza pensare che potrebbe acquistare molto di più, senza fatica e senza perdita di tempo, imparando semplicemente a contare. La nostra scuola, per continuare l’immagine, fa imparare con mezzucci mnemonici il numero delle sillabe d’un esercito di parole, ma non insegna a calcolare le sillabe di tutte parole reali e possibili.

Per salvare la scuola, occorre eliminare i programmi stereotipati e imposti dal di fuori e dare invece modo a ognuno di sviluppare il meglio possibile la propria mentalità e la propria iniziativa. Forse così non avremo più i dottori in una scienza sterminata, ma avremo specialisti che nel loro campo, sia pur minimo, saranno dominatori e coscienti. Invece del dottore in matematica ci sarà il dottore in geometria analitica delle coniche, ma questo minuscolo dottore non dovrà arrossire se gli domanderete cosa siano i postulati, l’infinito matematico, che valore abbia l’opera di Cartesio; e vi dimostrerà i teoremi con procedimenti razionali e non con balbettii meccanici.

Trasformazione rivoluzionaria anche degli esami. Gli esami attuali sono l’apoteosi dello sforzo e dello sforzo irrazionale, precario, vano. L’esame serve a constatare che un individuo possiede un’istruzione che ha potuto benissimo imparare in quindici giorni di studio pazzesco e che dopo quindici giorni dimenticherà per sempre. L’esame invece dovrebbe misurare la potenzialità dinamica, vitale dell’intelligenza, la cultura perenne; e per far questo occorrerebbe che fosse continuo e non istantaneo e fosse per il candidato non la vergogna d’un’inquisizione ma la gloria d’un’elevata autopresentazione spirituale. Così maestri e discepoli sarebbero amici collaboratori, non aguzzini e schiavi; la cultura sarebbe non un caos di cognizioni tenute insieme meccanicamente ma un’armonia, e gli studenti non sarebbero più il riscontro dei preti per forza e delle signore di Monza, ma uomini di fede.

Non voglio concludere alla diserzione scolastica. I disertori – tranne quando si chiamino Rapisardi, Croce, Bracco – sono, in fondo, dei vinti e dei deboli. Noi invece dobbiamo superare incontaminati il pantano della scuola burocratica, per poter poi preparare l’avvento d’una nuova scuola che licenzi i suoi figli non quando li ha caricati alla meglio d’un immane bagaglio, ma, come fanno gli uccelli, quando li ha resi atti alla vita e al volo.

 

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