Il “crimine” dell’ingratitudine secondo Seneca

di Salvatore Primiceri – La riconoscenza è l’unica moneta con cui ricambiare un favore ricevuto, ne è convinto Seneca che sui “benefici” ha scritto un ampio trattato suddiviso in sette libri. Ma il “grazie” non può essere un gesto passeggero che cade nel dimenticatoio poco dopo il beneficio ricevuto: di ciò che riceviamo occorre, infatti, ricordarsene sempre.

Degli ingrati, ammonisce il filosofo romano, si lamentano tutti, persino gli ingrati stessi. Ingrati contro ingrati. “Consideriamo certe persone come i nostri peggiori nemici, non solo dopo aver ricevuto dei benefici ma per il fatto stesso di averli ricevuti“. Sembra un paradosso ma Seneca spiega bene perché questo accade: “succede in alcuni per via della loro natura malvagia, ma per la maggioranza delle persone accade perché il tempo intercorso annulla il ricordo“.
Il tempo può cancellare i ricordi ma ciò per Seneca è imperdonabile: “il più ingrato di tutti è chi dimentica“. Il ricordo del passato è per Seneca fondamentale, è un gesto di rispetto verso il prossimo, verso colui che ci ha teso una mano senza voler nulla in cambio. Dimenticarsene significa non aver nemmeno pensato ad una possibile forma di riconoscenza.
Ci sono vari motivi per cui spesso ignoriamo coloro che ci hanno aiutato. Uno di questi è proprio l’attenzione frenetica che rivolgiamo alle cose del futuro: “siamo sempre presi da nuovi desideri, sempre attenti a ciò che ci manca, quello che abbiamo ci sembra privo di valore“. Siamo attenti agli altri finché non otteniamo ciò che desideriamo, dopodiché ci sbarazziamo di chi ci ha aiutato perché nuovi desideri prendono il sopravvento nel nostro animo. Sempre proiettati al futuro, spiega Seneca, “sono veramente in pochi quelli che ritornano con la mente al passato“.
Il filosofo dà quindi ragione ad Epicuro: “egli non smette di lamentarsi del fatto che siamo ingrati verso le cose passate… eppure non c’è piacere più saldo di quello che non può esserci portato via“. I beni del presente non sono completamente al sicuro, quelli del futuro sono incerti: “ciò che invece è passato riposa al sicuro“.
E’ quindi il ricordo che rende riconoscenti. Chi dà più peso alla speranza ne toglie alla memoria.
Per Seneca l’irriconoscenza è un vizio odioso, quasi un crimine. Ma andrebbe punito come se fosse una violazione di legge?
Sarebbe un controsenso. Il filosofo spiega che in un favore la cosa più bella è proprio l’averlo accordato senza contropartita, l’essere disposti anche a perderlo perché ci si affida totalmente all’arbitrio di coloro che lo riceveranno. Rivolgersi invece ad un giudice significa trasformare il beneficio in credito, il che annulla il senso naturale dell’aiuto reciproco. In secondo luogo la riconoscenza è un gesto nobile, pertanto non può divenire obbligatorio; ne verrebbe meno proprio quella sua nobiltà e purezza. L’ingratitudine è quindi un “crimine” morale, non giuridico.
Abbiamo rovinato le due cose più belle del vivere in società: la gratitudine e il beneficio” – si rammarica Seneca.
Le riflessioni del filosofo stoico sono, come sempre, straordinariamente attuali. Proviamo a pensarci: con quante persone che in passato ci hanno accordato un favore, piccolo o grande che sia, siamo ancora in rapporti? Di quanti favori ricevuti ci ricordiamo? Quanto spesso alimentiamo la gratitudine col ricordo?
Come diceva Torquato nel “De finibus” di Cicerone: “gli stolti si tormentano ricordando i mali passati, i sapienti invece ricevono diletto ricordando i beni passati. E’ in nostro potere seppellire nell’oblio le avversità e mantenere vivo con dolce gioia il ricordo degli avvenimenti felici“. Nella ricostruzione di un “linguaggio del buonsenso”, quindi, ricordiamoci dell’importanza delle parole “grazie”, “riconoscenza” e “ricordo”.

Salvatore Primiceri

Per approfondire:

  • Seneca, Sui benefici, Biblioteca Universale Laterza, Bari 2008

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