Sei un deontologista o un consequenzialista?

di Salvatore Primiceri – Uno dei temi da sempre dibattuto nel campo della filosofia morale è l’eterno conflitto tra deontologisti e consequenzialisti. Di cosa si tratta?

Cercando di semplificare al massimo, potremmo definire deontologisti coloro i quali ritengono che alcune regole etiche siano giuste e assolute per tutti e, come tali, vadano rispettate al di là degli effetti che scaturirebbero dalla loro applicazione. Per esempio, due regole etiche assolute da un punto di vista deontologista, sono il “non uccidere” o, più in generale, “non fare male agli altri” e il “non mentire“.
I consequenzialisti, invece, ritengono che le regole etiche assolute siano certamente giuste e vadano rispettate ma, al tempo stesso, che esistano casi in cui diventi possibile trasgredirle per ottenere un vantaggio maggiore rispetto alla loro mera osservanza.
Ad esempio, nel caso della regola “non dire bugie“, i deontologisti ritengono che vada osservata in assoluto; i consequenzialisti, invece, ritengono che si possa trasgredire se le conseguenze della bugia detta comportano un’utilità (“es. la cosiddetta “bugia a fin di bene“). Per questo i consequenzialisti sono detti anche “utilitaristi“.
La differenza evidente fra le due correnti di pensiero è che per i deontologisti conta l’intenzione prima di intraprendere un’azione; per i consequenzialisti occorre invece prestare maggiore attenzione alla valutazione delle conseguenze di un’azione.
Per i deontologisti il rispetto delle regole etiche diventa un dovere non negoziabile. Il più importante deontologista della storia della filosofia è senza dubbio Immanuel Kant (“Agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere come principio di una legislazione universale“).
Per i consequenzialisti l’etica consiste nel preoccuparsi soprattutto degli effetti delle nostre azioni più che delle intenzioni. I più celebri utilitaristi e consequenzialisti della storia della filosofia sono Jeremy Bentham e John Stuart Mill.
Come uscirne?
Il dibattito è tutt’oggi aperto e non sono mancati contributi che hanno fatto ben sperare verso una soluzione condivisa del dilemma, come ad esempio l’apporto fornito dal britannico William David Ross con la teoria dei “doveri di prima facie“.
Ma, se è vero, come dicevano i latini, che “in medio stat virtus“, per essere uomini giusti e virtuosi occorre allora ricercare sempre la mediazione e l’equilibrio fra due posizioni estreme. Il concetto, inoltre, era già stato ampiamente formulato da Aristotele con la “teoria del giusto mezzo” nell'”Etica Nicomachea“. Gli stessi Kant, Bentham e Mill avevano posto, peraltro, il rispetto della dignità umana come un elemento base che deve ispirare qualsiasi azione. Questo basterebbe, forse, a fornire l'”eccezione” necessaria al deontologismo estremo di Kant (“Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo“) e, al tempo stesso, a fornire un senso etico anche all’utilitarismo, il quale si muoverebbe in un campo di applicazione rivolto alla collettività (“la felicità per il maggior numero“) e non individualista/egoistico come è spesso stato, a mio avviso erroneamente, considerato.
Per questo la riflessione che provo modestamente a suggerire, e che ho esposto in maniera più approfondita nei volumi sull’etica e sulla giustizia del “buonsenso“, intende contribuire ad una costruttiva mediazione tra le due posizioni.
Il punto di partenza è la definizione di “buonsenso” ovvero “la capacità naturale dell’uomo di distinguere il buono dal cattivo, il giusto dall’ingiusto“. Parto quindi dal presupposto che il buonsenso è un elemento innato del carattere umano, una cassetta degli attrezzi (composta da principi etici universali, quelli del deontologista per intenderci) atti a farci agire il più possibile con giustizia in ogni nostra azione. L’utilizzo del buonsenso è pertanto necessario proprio al fine di conciliare posizioni entrambi valide che finirebbero per sacrificare una parte di giustizia se applicate singolarmente o una escludendo l’altra. Considerare solo l’intenzione (o il movente) di un’azione piuttosto che solo il principio di utilità comporterebbe comunque il rischio di aumentare gli effetti ingiusti di un’azione.
Il buonsenso risponde alla domanda “come fare la cosa giusta?” considerando allo stesso modo sia l’intenzione che presuppone l’azione, sia la valutazione delle possibili conseguenze. In più, il buonsenso, tiene in debito conto anche la valutazione delle circostanze in cui ci si trova ad agire e la giustezza della modalità (atto, linguaggio, uso appropriato delle parole) con cui viene esercitata l’azione, quindi il concreto momento dell’agire. Per far sì che un’azione sia veramente giusta e rispondente ai principi etici universalmente riconosciuti essa deve quindi aderire alla correttezza di tutti e quattro i passaggi sopra citati.
Il risultato è un incontro tra intenzione giusta e giusta conseguenza, passando per il giusto agire. In caso di conflitto tra una regola deontologica e la conseguenza (es. mentire per salvare una vita umana) è il buonsenso a legittimare l’apparente eccezione in quanto elemento etico naturale e quindi al di sopra di qualsiasi altra regola.
Infine, è possibile compiere sempre l’azione giusta? Ovviamente no. A volte, la mediazione del buonsenso tra deontologismo e consequenzialismo, non porta alla soddisfazione completa del senso di giustizia in un’azione. E’ il caso dei cosiddetti “dilemmi morali” dove, spesso, occorre scegliere il “male minore” col rischio di essere influenzati da una forte soggettività morale (in questi casi la valutazione del movente e delle possibili conseguenze non porta comunque ad un risultato giusto in assoluto per tutti). Di questo si occupa la “carrellologia“, una “materia” molto affascinante, e in parte divertente, capace di mettere a dura prova i nostri convincimenti morali. Ma su questa ci torneremo prossimamente. Nel frattempo provate a pensare: siete più deontologisti o consequenzialisti?

Salvatore Primiceri

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