Mediation impossible?

schopenhauer(di Salvatore Primiceri) – Mediazione, missione impossibile? Tempo fa, uno dei tanti avvocati con cui mi relaziono per lavoro mi ha detto che la mediazione non ha futuro in quanto l’essere umano pretende sempre di avere ragione. Pertanto in una contesa l’uomo ha bisogno di un’autorità che decida per lui chi ha torto e chi ha ragione e anche quando la decisione è stata presa lo sconfitto continua a credere di avere ragione (e magari il vincitore è deluso lo stesso perchè le proprie ragioni non sono state accolte come lui avrebbe voluto).

A nulla sono valsi i miei tentativi di spiegare che la mediazione non è una concessione di uno verso l’altro ma una vittoria corale alla quale bisogna arrivare utilizzando delle tecniche di negoziazione. Quel che per me è un problema culturale, per l’amico avvocato è un problema insito nella natura umana a cui non si può porre rimedio.
Le sue parole mi hanno fatto tornare alla mente quelle di un pessimista razionale come Arthur Schopenhauer. Il filosofo tedesco diceva che se due soggetti discutono su una questione e scoprono di pensarla diversamente sulla medesima, ognuno di loro presuppone l’errore nel pensiero dell’altro non mettendo mai in discussione il proprio. Questo perchè, secondo Schopenhauer l’uomo pretende di avere ragione per natura. E secondo il filosofo il motivo di tale presunzione sta nella malvagità dell’essere umano. L’uomo è naturalmente (anche) malvagio e la dimostrazione è presto fatta. Se non vi fosse malvagità l’uomo sarebbe onesto e l’onestà in una discussione non farebbe altro che aiutare le persone a cercare la verità invece che difendere a tutti i costi le proprie pretese.
Ma non finisce qui. Nella drammatica caratterizzazione dell’essere umano, il filosofo tedesco affida una buona dose di colpa anche alla vanità. L’uomo è vanitoso, orgoglioso e disonesto a tal punto che anche quando sbaglia difficilmente ammette l’errore a favore di un altro.
Il vero deve apparire falso e il falso vero. Per questo Schopenhauer differenzia la dialettica dalla logica razionale dove la prima serve a disputare al fine di ottenere ragione. Qui entrano in gioco anche l’abilità e la persuasione, elementi che possono distorcere la percezione in chi ascolta su chi ha ragione e chi ha torto facilitando l’emissione di facili giudizi.
Le parole di Schopenhauer, a mio parere, non devono però essere estremizzate ma devono aiutarci a riflettere su come cambiare il nostro approccio dialogico e culturale riguardo al conflitto. La differenza tra lo scenario della mediazione rispetto al contenzioso giudiziario sta nel fine. In entrambi gli scenari le parti esprimono le proprie ragioni partendo da posizioni distanti e apparentemente inconciliabili ma mentre il fine processuale è quello di stabilire chi ha ragione secondo legge, il fine della mediazione è stabilire la “verità” intesa come l’accordo che soddisfa entrambe le parti. Per sfondare il muro della conflittualità costruito sulla pretesa di ognuno di avere ragione occorre un bravo mediatore che faccia emergere l’altra faccia della natura umana, quella positiva che spinge al relazionarsi con gli altri, ad ascoltare, a costruire insieme. E’ questo il motivo per cui tanti giudici hanno recentemente chiarito che la mediazione non può ridursi ad una mera affermazione iniziale di volontà delle parti circa il mediare o meno. E’ infatti probabile che all’inizio la maggioranza risponderebbe di no proprio per la tendenza espressa dal filosofo tedesco. E’ in questa fase che si misura la bravura di un mediatore quando riesce a condurre le parti fuori dal recinto iniziale dello scontro.
I recenti dati sulla diffusione della mediazione in Italia sono positivi. La strada per un cambiamento culturale è in salita ma appare giusta. Anche l’avvocatura sembra essersene accorta tant’è che a ottobre celebrerà il suo primo congresso nazionale sul tema “l’avvocato fuori dal processo”. E ora chi glielo spiega al mio amico avvocato?

Salvatore Primiceri

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