Mediazione e benessere sociale: conciliare rende più felici?

convegnoavellino(di Salvatore Primiceri)* – La mediazione rende felici? Molti di voi probabilmente staranno pensando “magari bastasse la mediazione per trovare la felicità”. In realtà, per essere felici, basta molto meno. Ma come è possibile?


Mi piace riportare, tra i tanti aneddoti sul modo di vivere e affrontare le situazioni della vita quotidiana, un racconto dello psicologo Paul Watzlawick.
Egli racconta di un signore di nome Amedeo che viveva con la convinzione che gli altri fossero al mondo per fregarlo in qualche modo. Egli voleva sempre vincere e temeva la sconfitta. Le relazioni umane per lui erano un duello. Un giorno parcheggiò la sua macchina per recarsi al lavoro e sentì che uno sconosciuto lo stava seguendo per avvisarlo che aveva lasciato i fari della macchina accesi. Amedeo, data la sua forma mentis, si pose con diffidenza: “Cosa vorrà veramente quest’uomo? In cosa mi vuole fregare?” – si domandava tra sé e sé. Mentre si poneva tali dubbi, l’uomo era già scomparso tra la folla di persone che si stavano affrettando per recarsi al lavoro. Amedeo capì che non c’era alcun secondo fine e rimase quindi stupito di come quell’uomo si fosse messo a rincorrere uno sconosciuto per avvisarlo che aveva dimenticato i fari della macchina accesi. Lui non lo avrebbe mai fatto. Anzi, se avesse notato una macchina coi fari accesi si sarebbe divertito ad immaginare la rabbia del proprietario al ritorno la sera, stanco dopo il lavoro, alle prese con la batteria scarica. Qualche giorno dopo il caso volle che Amedeo ritrovasse per strada un portafoglio pieno di soldi. L’istinto fu quello di tenerseli ma, ripensando all’azione dello sconosciuto e dei fari della macchina, lesse la carta d’identità contenuta nel portafogli e rintracciò il legittimo proprietario per restituirglielo. Il proprietario del portafogli rimase stupito di tale gesto. Anch’egli era come Amedeo: “Se lo avessi trovato io non sarei stato tanto fesso da restituirlo” – pensò, non sapendo che ormai anche dentro di sé si era innescata quella “reazione a catena” nata dal gesto dello sconosciuto dei fari, meritevole a sua insaputa di aver insegnato ad Amedeo e al proprietario del portafogli il “senso del dovere”.
Cosa impariamo da questo simpatico racconto?
Che possiamo cambiare, mettere in discussione le nostre convinzioni derivanti dalla formazione ricevuta, dal contesto culturale in cui siamo cresciuti. La chiave del benessere personale sta nel “modo in cui ci poniamo di fronte al presentarsi di un problema e nel nostro atteggiamento verso gli altri”. L’approccio iniziale può divenire determinante nell’eventuale insorgere e svilupparsi di un conflitto.
Per conflitto intendo qualsiasi elemento, interiore o di relazione, che mina alla nostra tranquillità, serenità e quindi, felicità.
La visione dal punto di vista più positivo delle cose che ci capitano durante una giornata favorisce un buon punto di partenza per prevenire i conflitti.
Ma adottare una strategia mentale positiva richiede esercizio e, soprattutto, è una scelta. Dobbiamo imparare a scegliere di affrontare i problemi in modo diverso, alternativo. Si può fare partendo innanzitutto dai piccoli gesti quotidiani: dal modo di comunicare con le persone alla reazione che abbiamo di fronte a imprevisti, come abbiamo visto nell’esempio.
Il primo presupposto è il cambiamento di mentalità allenando il cervello ad ristrutturare le situazioni con una analisi a somma variabile e non a somma zero.
Che cosa vuol dire? Il gioco a somma zero è una visione che prevede sempre un vincitore e un perdente. L’educazione della nostra società è basata sulla logica, sull’esperienza dominante, sul pensiero verticale. Quello laterale, invece, basato sulla bassa probabilità e sulla creatività non viene quasi mai insegnato a scuola. Per risolvere un problema ci deve quindi essere chi ha ragione e chi ha torto. L’illusione della felicità conseguita dall’essere vincitore è ancora prevalente nella nostra società. Il signor Amedeo, dell’esempio, ha una mente a somma zero. Lui deve vincere, gli altri possono compromettere la sua necessità di essere vincente quindi costituiscono un pericolo.
La nostra società si è sviluppata sulla logica a somma zero. Il contemplare una soluzione diversa dalla logica “win-lose” (un vincitore e un perdente) è ancora, spesso, utopia. Il concedere qualcosa all’altro interlocutore viene visto come una “rinuncia”, una “sconfitta” personale giudicabile come debolezza, mancanza di affermazione e carattere.
Vivere così spalanca le porte alla conflittualità, alla diffidenza, alla rabbia, all’invidia, al rancore e a tutte quelle componenti che animano gli atteggiamenti di vendetta.
La mediazione rappresenta oggi un’opportunità per un forte cambiamento culturale che modifichi radicalmente le dinamiche interpersonali nella vita quotidiana, sul lavoro, a casa con i famigliari, con gli amici.
Sedersi ad un tavolo di mediazione significa sgomberare il campo da pregiudizi, resettare il cervello, aprirsi al cambiamento attraverso l’ascolto e la comprensione dei reciproci punti di vista. Gli attori della mediazione devono così indossare quello che Edward De Bono, padre del pensiero laterale, definisce il “cappello verde” ovvero il cappello della creatività, il giusto atteggiamento mentale che permetta a tutti (parti, avvocati e mediatore) di scomporre e ristrutturare il conflitto attraverso un’analisi obiettiva, priva di giudizi, cercando e mettendo sul campo tutte le possibili soluzioni, anche quelle che risulteranno palesemente assurde o inapplicabili. La soluzione vincente per entrambi le parti (win-win) sarà la più soddisfacente e, spesso, sarà una soluzione che nessun giudice avrebbe potuto decidere secondo la logica dei codici e della procedura processuale.
La mediazione è un luogo riservato dove la procedura civile e gli schemi processuali non devono entrare altrimenti il gioco diventa a somma zero.
Non è facile attuare un cambiamento di questo tipo. Occorre esercizio, esperienza e una predisposizione mentale al gioco a somma variabile dove i vincitori devono risultare tutti e non un unico soggetto.
Qui entrano in gioco le capacità del mediatore, abile leader nella conduzione del dialogo e nella scelta delle strategie volte a favorire la caduta delle barriere personali e i giudizi reciproci tra le parti.
È fondamentale che il cambiamento interessi tutti i presenti in mediazione, quindi non solo il mediatore ma anche gli avvocati e le parti.
Per fare ciò occorre creare le basi per un cambiamento culturale, innescare quella reazione a catena di cui parlavo prima nell’esempio.
Le ricadute sociali di uno sviluppo culturale della mediazione potranno essere molteplici e positive. Occorre però un grande sforzo che parta dalla società stessa, dai singoli individui, dalle scuole, dall’informazione. Occorre ripensare il modo in cui viviamo e ci relazioniamo con gli altri. Solo con una mente allenata al pensiero laterale e al problem solving potremo non solo comprendere a fondo i benefici della risoluzione dei conflitti attraverso la mediazione ma, addirittura, prevenire l’insorgere di essi.
La felicità è quindi una scelta possibile che comporta studio, preparazione e pratica. Non dobbiamo aspettarla, dobbiamo noi stessi costruirla ristrutturando il nostro modo di relazionarci nella società.

Salvatore Primiceri

*Traccia per il convegno “La Mediazione in Italia” – Avellino, 10 aprile 2014

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